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Maremma Touring
Il racconto di un territorio
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Nell’isola

Cira Battaglia febbraio 24, 2017 Storie

Lo scrittore Alessandro Angeli ci ha regalato un bellissimo racconto.

Il mio garage è piccolo ma accogliente. C’è una cucina un po’ arrugginita, un divano letto, una televisione che guardo ogni tanto, quasi mai a dire il vero e un bagno microscopico nel quale fa un freddo della malora. Per scaldarmi ho una vecchia stufa a kerosene. Ho un’ora a disposizione, poi devo tornare al lavoro fino a domattina alle sei, quando i primi operai vengono a firmare presenza. Lavo i piatti con l’acqua fredda e mi riscaldo la cena: mezza bottiglia di rosso e un piatto di lenticchie e spinaci. Cibi proteici e poco costosi, utili per chi deve stare in piedi la notte. Poi quando è l’ora, prendo la bici e attraverso i campi già mezzi addormentati, sotto la pianura e le stelle. I cespugli resi umidi dalla guazza mi sorridono, mentre passo correndo a testa in giù, sotto l’andirivieni delle zanzare. C’è sempre qualche lepre o gatto che scappa via all’improvviso, a nascondere gli occhi nel buio. I mesi si alternano, si accarezzano nella baruffa delle stagioni, mentre io pedalo nel fango o sulla sabbia, sotto il sole o la luna, portando i miei segreti con me.
Dal bar dei cacciatori vengono le urla degli avventori, c’è una partita di calcio e la gente si affanna, gioisce e bestemmia. Poco più avanti le gabbie dove i cani stanno rinchiusi ad abbaiare tutta la notte, con una ciotola d’acqua sporca e un pezzo di pane muffito. Le macchine ripartono nel fango, gli olivi si piegano al vento, dalla campagna attraverso una sbarra di ferro si sbuca in città. La terra si trasforma in asfalto. L’umidità bagna la strada, i lampioni borbottano, le linee stradali non viste si raggomitolano.
Lego la bici a un palo, prendo le chiavi e apro il baracchino dove lavoro. Un cubetto a vetri incastrato in una cancellata verde, di ferro battuto. Sul tavolo ci sono un cappellino blu che non metto mai, un registro con una penna, una torcia a pile e un telefono. La cosa buffa è che su questo registro sto scrivendo soltanto i miei pensieri, chissà che direbbero se venissero a saperlo. Passo le ore così, a guardare il buio e nel buio ancora altro buio, e scrivo, riempio pagine su pagine, non mi stanco mai. Non ho idea di cosa ci sia oltre queste sbarre, in questo grosso magazzino che di notte sta chiuso. Il mio lavoro è … non so come si dice, una di quelle cose fatte per i giovani, un lavoro socialmente utile, ma non so bene, io non mi intendo di queste cose. È stato l’ufficio del lavoro a trovarmelo. Quando sono arrivato qua la prima notte un uomo mi ha spiegato quello che dovevo fare, mi ha consegnato le chiavi di questo baracchino e se n’è andato. La mattina dopo, quando è tornato, mi ha detto che potevo andare a casa e che dovevo ripresentarmi alle dieci di sera. Mi ha detto anche che di tanto in tanto sarebbe arrivato un camion e io non avrei dovuto far niente, perché i congegni per aprire li avevano loro. In realtà da quando sono qui non ho visto nessuno, non è che ci sia un gran giro da queste parti. Così alzo gli occhi e guardo le stelle, nel cielo c’è spazio per tutto. Poi all’improvviso due fari vengono verso di me, nella mia direzione. Allora mi scuoto, m’infilo il berretto, ecco sì prendo anche la torcia. La accendo ed esco dal bugigattolo. Il camion mi arriva addosso con i suoi fari e io con la torcia accesa non vedo più niente, solo un fascio di luce che mi acceca e acceca anche loro. Infatti mi suonano col clacson, ecco, lo sapevo che facevo casino. Quando il camion si ferma, anche se gli occhi erano infastiditi dalla luce, i miei orecchi hanno sentito un muggito e tra le sbarre del camion le ho viste. Tre mucche accalcate una addosso all’altra.
“Che fai lì impalato?” Mi ha chiesto quello al posto di guida.
“Dove le portate queste mucche?”
“A fare una gita al Louvre” Ha risposto l’altro ed entrambi si sono messi a ridere.
Poi il primo che aveva parlato mi ha detto di spostarmi che volevano andare a dormire.
Il cancello era già aperto e il camion è entrato con il silenzio che riempiva il buio.
Sono tornato nel baracchino in mezzo a tutti i miei ammennicoli e ho sentito di nuovo il rombo strozzato del camion. Quando è tornato indietro l’autista mi ha guardato un’ultima volta ed è sparito nella notte. Il cancello era chiuso, non c’era più nessuno attorno. Sentivo freddo, così ho preso la vecchia coperta nell’armadietto buttandomela sulle spalle e per un attimo ho ripensato a quei musi che sporgevano nel buio. Con un salto ho scavalcato il cancello e dopo qualche metro ho raggiunto la parte posteriore del magazzino. Da fuori le sentivo sgolarsi. Cercavo di guardarmi attorno. L’edificio era recintato da fil di ferro, in fondo, nell’angolo, c’era un cancello di metallo che dava sulla campagna sterminata. La serratura era priva di lucchetto, da lì sarei uscito facilmente, il grosso problema era entrare. Aiutandomi con la torcia ho perlustrato bene la zona, con l’ansia che mi fremeva in petto per la paura di essere scoperto. Avevo quasi rinunciato, quando all’improvviso, accatastati sul lato posteriore del magazzino, ho visto dei tubi di ferro pesante. Ne ho infilato uno nei pantaloni fissandolo alla cinta, mi sono arrampicato sul cornicione e con tutta la forza che avevo l’ho sbattuto contro la finestra. Dalla fessura ho guardato giù, erano un sacco di metri, il pavimento si vedeva a fatica. Ho guardato verso il cielo le stelle, poi mi sono fatto forza e ho chiuso gli occhi.
Il rumore metallico del tubo ha echeggiato nel magazzino. Sono caduto in una nube di polvere su una balla di fieno, le mucche a due passi mi guardavano. Poco dopo, una di loro si è avvicinata e abbassando il muso mi ha leccato il viso. Mi sono alzato in piedi e loro meccanicamente si sono spostate. Stavano a distanza e mi guardavano fisso, una accanto all’altra, senza battere ciglio. Con una manciata di fieno sono andato incontro alla prima, quella dondolando la testa ha cominciato a masticare. Dopo un po’ si lasciavano accarezzare senza paura. Ho guardato l’edificio attorno, le sue pareti, ho esaminato la serratura dello stanzone, aiutandomi con l’accendino fino a scottarmi le dita, non era impossibile da forzare, bastava trovare qualcosa che facesse leva.
Ho cercato nell’oscurità la mazza di ferro che era caduta con me dal soffitto, fino a che non l’ho urtata col piede. I raggi della luna illuminavano la polvere e il fieno del capannone. Con l’aiuto del tubo, dopo cinque minuti di tentativi sono riuscito a forzare la serratura. Ho aperto il cancello che dava sui prati e sono tornato dentro. Le tre mucche non si erano accorte di niente, tacevano biascicando pagliuzze. “Andiamo fuori di qui”, ho detto battendo il ferro sul pavimento, la prima scuotendosi ha fatto un piccolo passo, poi un altro, le altre lentamente l’hanno seguita. Quando si fermavano battevo il ferro su qualsiasi cosa facesse rumore e loro ripartivano. Era la prima volta che parlavo a delle mucche. Una a una hanno varcato il cancello e siamo finiti nel campo. Eravamo fuori, all’aperto, loro incedevano con passo malcerto sulle zolle di terra, mentre io le guidavo.
La mia voce risuonava nella campagna come quella di un pazzo che rincorre le nuvole. Non sapevano cosa stesse accadendo, ma io si, volevo allontanarmi il più possibile da quel magazzino.
La luna lasciava sotto di sé una coltre di bruma azzurra mentre splendeva sporgendosi in alto. Noi camminavamo sotto la sua ombra e sotto le nubi rossastre, che vegliavano le case addormentate. Rimanevano immote a mostrarci il cammino. Ogni tanto qualcuna si fermava, allora ricominciavo a parlarle. A forza di camminare a tastoni sopra la terra, sono sbucati i primi alberi, che timidi e infreddoliti precedevano la macchia. Il capannone era un puntino lontano.
Mi sono addossato a un tronco, il sudore scendeva dal collo fin dentro i vestiti. Ho preso il giaccone pesante che avevo nello zaino indossandolo. Loro mi guardavano immobili. Poi hanno cominciato a brucare l’erba. Appoggiando la testa sulla spalla ho chiuso gli occhi per cercare di riposare un po’.

***

Stanotte ho sentito il vento percuotere le imposte, ululava. Il suo fischio attraversava l’intero edificio. Temevo di non riuscire ad addormentarmi, non riesco a dormire nei letti diversi dal mio, ho bisogno di abituarmi e allora ascoltavo i rumori. Nella notte ogni piccolo suono è un boato e io volevo sprofondare giù nel letto, immergermi dentro il materasso per raggiungere i miei sogni. E invece vegliavo con gli occhi al soffitto. Alle sue ombre e alla luce gialla che s’incuneava attraverso i corridoi. Poi finalmente ho chiuso gli occhi e quando hanno bussato alla porta stavo ancora sognando. Sognavo di te Nadine, come sempre, che mi volevi bene, anche se c’era un altro a impedirtelo, ma insieme superavamo ogni ostacolo e i colori erano limpidi. Poi mi hanno svegliato e del sogno non ricordo più niente. Ormai sono sei giorni che sto qui, questo è il settimo. La mattina non parliamo, ci fanno uscire nei corridoi e scendiamo giù in un grande stanzone tutto illuminato, a far colazione. Una scodella di caffelatte, un panino, un vasetto di marmellata e un cucchiaio di zucchero. La mattina quasi nessuno parla, perché nessuno ne ha voglia, ci guardiamo in silenzio, alzando gli occhi dalla scodella con la bocca inzuppata di pane. Ci sono un sacco di stranieri come me, la maggior parte sono dell’est, anche se qua dentro, in fondo, siamo tutti uguali, perché abbiamo tutti gli stessi confini. In ogni momento della giornata c’è sempre qualcuno che ci controlla, in silenzio getta i suoi occhi su di noi, senza dire niente e se lo guardi tu allora sposta lo sguardo da un’altra parte. Nella sala dei pasti c’è un millepiedi che da quando sono arrivato sta immobile sul davanzale, non si muove, eppure è vivo. Sembra non avere più stimoli, sta aspettando un dirigibile che se lo porti via. Io tutte le volte vado a controllare se c’è, rimango qualche secondo a vedere che fa, questo mi aiuta a rinforzare la mia percezione del tempo. Ormai credo che mi riconosca, che mi senta arrivare, ma non lo dà a vedere, non vuole dimostrarmi il suo affetto. Dopo colazione inizia la giornata vera e propria. La mattina passa in fretta, il pomeriggio già le cose cambiano e a ogni ora ti senti più piccolo. A giorni alterni ci portano al laboratorio a lavorare il legno o il ferro. Se monto sulla sedia, posso vedere la città fuori della finestra: c’è una via stretta e grigia con qualche negozio illuminato, la gente ci cammina senza alzare lo sguardo. A qualche metro da lì s’intravede il giardino con i suoi alberi verdi e le sue strade di sassi, anche se visto da qui sembra un sacco distante.
Mi hanno detto che il mattatoio era abusivo, che è stato messo sotto sequestro, ma in fondo a me non importa, vorrei vivere una vita tranquilla, quello sì, poter guardare le cose senza averne paura. Hanno detto anche che il garage dove vivo non è un posto sano, così mi hanno messo in questa casa famiglia, come la chiamano loro. L’operatore mi osserva mentre sto seduto guardando il soffitto e giocherella con l’accendino. Mi dice di alzarmi e io lo faccio, vado in bagno e sciacquo il viso sotto l’acqua fredda, due, tre, quattro volte, quanto basta per provare a svegliarmi ed esco fuori ad aspettare gli altri. Oggi è domenica e dopo colazione ci sono le visite dei parenti. A tutti quanti dicono di farsi la barba e pettinarsi, per non farsi trovare in condizioni indecenti. Io aspetto nella sala adiacente, gli altri accanto a me sono nervosi, domandano l’ora e fumano, sono impazienti di rivedere i loro familiari.
Per me non c’è nessuno, ne sono sicuro e così anch’io fumo aspettando che quest’ora passi, come tutte le altre. Dopo le visite è l’ora della messa e ci accalchiamo tutti nella grande cappella bianca, ci sono anche quelli delle altre strutture. La domenica fanno sempre un pranzo speciale: lasagne, coniglio al forno e mousse di cioccolato, così tutti diventano più cordiali e di buon umore. Io ho mangiato solo il primo, ho deciso che non mangerò più carne. Il pomeriggio guardiamo la televisione perché è domenica e di domenica tutti si riposano, anche fuori di qui. Ci fanno guardare un programma colorato, con tante ballerine, che dovrebbe far ridere, ma non ride nessuno. Ogni tanto scappa fuori qualche urlo per i risultati delle partite che passano sullo schermo, allora gli operatori ci dicono di fare più piano. Il pensiero di te mi raggiunge quando meno me l’aspetto, mi riporta in un mondo dove le cose galleggiano. E a forza di fuggire da questo presente per raggiungere te, mi rendo conto di non riuscire più a starci. Ogni cosa mi sembra stupida, quando dovrebbe essere tutto il contrario. Vorrei che il tuo corpo fosse qui, che tutta questa gente sparisse e mi lasciasse solo con te. Qualcuno ride, un altro si gratta la testa, un altro ancora mangia le patatine, fuori è già buio. Vorrei camminare fuori di qua e raggiungerti come nei sogni quando ci incontriamo e tu mano nella mano cammini con me. Qualcosa allora mi dice che facciamo l’amore, anche se non lo stiamo facendo. Molti pensano che sia matto, mi sentono parlare la notte da solo, mentre parlo con te, ma loro non sanno niente. Perciò li lascio fare, che pensino come vogliono, tanto è lo stesso. Nella sala riunioni c’è una festa, è il compleanno di un ragazzo che non ride mai, sento le voci cantare, mi alzo e vado in bagno a guardarmi allo specchio. Guardo i miei capelli, accosto le labbra allo specchio, chiudo gli occhi e ti bacio. Immagino di baciare la tua bocca e di sentire il tuo corpo addosso al mio, fino a scaldarmi. Tu dopo un po’ ti distacchi e resti immobile a guardarmi, dall’altra parte dello specchio ti vedo sorridere.

fonte: http://www.panorama.it/societa/life/la-solitudine-uccide/

Le foglie gialle volano lungo il viale alberato, mentre il vento fischia una canzone. Ho visto questo viale cambiare tinta ogni volta, per poi ricominciare da capo. Gli alberi resi nudi dall’inverno guardano la strada, attraverso i loro rami il cielo fa capolino. Dentro il supermercato, cammino attraverso i corridoi, la gente s’intruppa senza accorgersene, si danno piccole spallate o ti sfiorano con i carrelli, come tanti sonnambuli. Quelli del banco sono i più affabili, giocano con le signore, divagano, parlano del tempo e consegnano il cibo direttamente alle mani della gente. Sono uscito con Flavio oggi, un ragazzo che vive nella camera accanto alla mia, ci hanno detto che dobbiamo tornare prima delle dieci e nient’altro. Fuori è già buio, le macchine seguono le rotte che conducono alle case, cariche di oggetti nuovi e di tempo rassicurante.
Camminiamo nelle luci della sera, tra i negozi e le locandine dei film. C’è un camioncino fermo lungo la strada, con tre uomini che stanno fissando gli addobbi per il Natale. Flavio si ferma a parlare con un amico, mentre io mi allontano un attimo. Mi siedo sopra i gradini bianchi a fumare. Guardo passare la poca gente che c’è, vicino ai cartelli pubblicitari.
Poi Flavio torna da me: “Perché te ne sei andato?” Mi chiede.
“Così, non mi andava di parlare.”
Lui sorride. A grandi falcate raggiungiamo un bar. Dentro, nella luce asfissiante, un gruppo di ragazze parlano ad alta voce, muovono le gambe, canticchiano.
Rimaniamo a sorseggiare vicino alle ciotole delle olive e dei sottaceti. Fuori la strada è semideserta, ormai è l’ora di cena. Sposto lo sguardo dentro il locale, in mezzo alla poca gente rimasta e la vedo. È lei, Nadine. Seduta accanto a un tipo coi capelli dritti, scolpiti, che le tiene la mano. Guardo il suo viso, i capelli neri. Il mio amico mi parla e io muovo la testa, faccio finta di sorridere, mentre cerco di non farmi vedere. Flavio dopo un po’ si stufa e continua a sorseggiare in silenzio. Lei non si accorge di me, guarda in continuazione il telefono e tiene gli occhi bassi. Poi entrambi si alzano, lui la aiuta a infilarsi la giacca e si avvicinano. Io rimango di spalle cercando di nascondermi in mezzo alle olive e loro tirano dritti. Sento il suo odore seguirla lentamente verso la porta chiusa del bar.
Fuori insieme a Flavio attraverso la lunga via di mattonelle, verso la fermata del pullman. Un po’ di pioggia comincia a scendere giù rendendo scivoloso il cammino. Proseguendo lungo il marciapiede raggiungiamo la fermata e appoggiato alle mura guardo le gocce d’acqua precipitarmi addosso. In quell’istante passa qualcuno frettoloso, che, chiavi alla mano, raggiunge subito la macchina. Noi continuiamo ad aspettare, aspettiamo un po’ di calore in questa città imbavagliata dal freddo.

***

Nel sogno il pub sbucava da una via silenziosa, la porta piccola era socchiusa come la palpebra di un elfo. Appena entrato ho sentito toccarmi un braccio, ho aperto gli occhi e ti ho vista. Eri tu, sembrava impossibile, e invece era vero. Stavi lì, rimanevi in piedi davanti a me, avevi la stessa aria di sempre. Siamo rimasti in silenzio, non sapevo cosa dire, avevo paura che te ne andassi, credevo di annegare. Ci guardavamo senza riuscire a dir niente, l’unica cosa che desideravo era rimanere solo con te. Quando ti ho chiesto di uscire mi hai risposto di sì. La pioggia ci cadeva addosso scoppiettando e inzuppando i vestiti mentre ci sfioravamo. Adesso raggiungevo tutti gli attimi che ci avevano divisi. Con le mani toccavo il tuo viso, era come spezzare le sbarre per raggiungere di nuovo l’isola. Sentivo le tue mani spettinarmi i capelli. Poi dalla strada due fari si sono avvicinati, il clacson mi ha fatto sobbalzare, ho guardato la macchina. I tergicristalli che si spostavano non lasciavano vedere chi fosse al volante: “Adesso devo andare”, hai detto, e coprendoti con le mani i capelli sei scappata verso la macchina. Sono rientrato zuppo fradicio dentro il pub, e tutti mi guardavano immobili.

***

Le notti a venire sono diventate lunghe, non riuscivo a chiudere occhio. Mi alzavo in piedi sul pavimento freddo, cercando a tastoni la luce. Una di quelle notti ho guardato il mio viso allo specchio, in mezzo alla luce giallastra, poi ho acceso una sigaretta girando per la stanza, mentre gli altri dormivano. Non riuscivo a indicare una via d’uscita ai miei pensieri. La sigaretta si consumava, il fumo aleggiava nel buio formando una cappa sotto al soffitto. Dal fumo si levavano i demoni della mia mente, danzavano con le loro facce sgangherate per burlarsi di me. Una lucore intermittente veniva dalla strada, erano gli addobbi natalizi che adesso attraevano i miei occhi. Sono rimasto fermo nel letto, deciso a non pensare più a niente e tutti i fantasmi che mi solleticavano i piedi finalmente se ne sono andati. Nel pomeriggio mi sono deciso a tornare in quel bar, dove qualche giorno prima ti ho vista. La ragazza dietro il bancone è rimasta impassibile al suo posto, senza nemmeno salutarmi, l’orologio segnava le sei. Anch’io l’ho ignorata, nonostante fosse venuta a chiedermi cosa desideravo. Quello che desideravo erano affari miei. Tu eri lì, seduta al solito tavolo, col solito tipo accanto che ti parlava senza stancarsi. Questa volta non ho preso da bere, ho girato i tacchi e sono uscito. In quel mentre è passata una macchina della polizia, uno degli agenti è sceso di scatto mettendosi a correre dietro a un ragazzo incappucciato, che stava dileguandosi in un vicolo. Quello al posto di guida mi ha squadrato fissandomi per qualche istante, senza dir niente, poi sgommando si è mosso. Mi sono allontanato da lì e seduto sulla bicicletta ho aspettato che usciste. Alcuni ragazzi tiravano pallonate contro un muro, mentre le mamme guardavano i bimbi correre in mezzo alla piazza. Dopo una ventina di minuti siete arrivati, vi ho osservati raggiungere la macchina e partire. C’era traffico a quell’ora e facendo attenzione a non farmi vedere sono riuscito a starvi dietro. Avete attraversato il centro storico dalla parte del mercato e siete entrati nella viuzza accanto alla Croce rossa. Sono rimasto in attesa, dopo dieci minuti sei uscita dalla macchina, i tuoi passi insistevano sul lastricato umido. L’aria si tramutava in foschia. Mentre stavi andando verso il portone, ti ho raggiunta e ti sei voltata:

“Mi hai seguita un’altra volta?” Hai detto fissandomi, ho abbassato lo sguardo senza il coraggio di guardarti. Quando ti sei incamminata, ti ho seguita ancora. Davanti alla porta di casa hai cominciato a dirmi di far piano. Hai aperto la porta e velocemente mi hai fatto strada nella tua camera, l’hai chiusa e ci siamo sdraiati sul letto. Da sotto veniva la musica di una fisarmonica. Mi sono voltato e tu eri lì, accanto a me.

***

Il centro storico si è appena svegliato, lo percorro e svicolo lungo il corso, dove la gente si mette a fare i primi discorsi. Un gatto miagolando esce dal cappello di un mendicante. Lui lì accanto suona la chitarra e canta sotto gli archi umidi, le macchine parcheggiate ascoltano la sua musica. Tra il marciapiede e i banchi dei venditori la strada si restringe, perciò devo scendere dalla bicicletta per evitare di crollare addosso a qualcuno. C’è Said che vende cinture, accendini, occhiali, kefie, cassette, porta un cappellone di lana in testa, quando passo mi saluta con la mano.

Attraverso la città nella sua umidità mattutina, fino al confine, dove inizia la strada per il mare. Un uomo sta tagliando l’erba con una falciatrice. Ha ancora molti prati davanti e sta lì come rassegnato al tempo e alla vastità degli spazi. La pista ciclabile è lì accanto, entro dentro e vedo le macchine sfrecciare nella mia direzione. Ecco la mia vita è come questa corsia adesso, se ne va sola senza intoppi o cambiamenti di rotta e da qui osservo le altre, le vedo affiancarsi alla mia, senza entrarvi. Un aereo si leva alto nel cielo a disegnare percorsi di schiuma. Ho deciso che costeggerò il fiume fin dove finisce la pista, arriverò dove comincia il mare per affidargli la mia promessa. Pedalando indurisco i muscoli, fin tanto che posso, per allenarli alla corsa. Adesso la corsia si è interrotta, si divide in due monconi, se voglio raggiungere l’altro devo attraversare pochi metri di una strada provinciale. Arrivato di là, scendo, guardo il fiume e il cielo nuvolo sopra di me, respiro a braccia larghe per far entrare aria, più aria possibile. Qualcosa picchietta nell’acqua e mi convinco che piove, ma è solo il movimento del fiume, il suo alito. Davanti ancora strada, a perdita d’occhio, costeggiata da alberi. Più avanti, lungo la pista, c’è una piazzola con due tavolini di legno e una fontanella. Appoggio la bici a un albero, la giacca sul tavolo e dopo aver bevuto apro il libro a caso:

Domani sarà il giorno. Esso non se ne andrà senza averti consolato. Differivo la gioia poiché n’ero sicuro. Assaporavo il mio tempo perché stava per finire il tempo della mia esclusione. Fra poco avrei potuto raggiungerla perché l’aveva concesso.
Domani sarà il giorno.
Domani nell’isola.

Alessandro Angeli è nato nel 1972, è insegnante precario, libraio ambulante e lettore per un’agenzia letteraria. Con Stampa Alternativa ha pubblicato: Transmission, vita morte e visioni di Ian Curtis, Joy Division (2014), Nostra patria è il mondo intero (2016), Io non sono la Coop, infelice epilogo di uno stagionale nel tritacarne della grande distribuzione (2016).

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Tag:Inclusione, Letteratura
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